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Raramente ci si ferma a riflettere su quali competenze siano davvero prioritarie per affrontare questa transizione con successo.
Il dilemma tra soft skills e hard skills è tutt’altro che teorico. Riguarda la preparazione concreta dei nuovi leader, la loro capacità di affermarsi in un contesto già definito e, soprattutto, il modo in cui saranno percepiti da collaboratori, stakeholder e familiari. E come ogni passaggio di testimone, non basta “sapere fare”. Bisogna anche “saper essere”.
La convinzione, ancora molto diffusa, è che per essere pronti a subentrare servano soprattutto competenze tecniche: saper leggere un bilancio, conoscere le dinamiche del settore, gestire un team o chiudere una trattativa.
Tutto vero, ma parziale. Perché il vero banco di prova non sarà solo operativo, ma relazionale. La nuova generazione dovrà conquistarsi fiducia, legittimità e autorevolezza – prima ancora di ottenere risultati numerici. E lo farà attraverso comportamenti, stile, capacità di ascolto, empatia, visione. In una parola: attraverso le soft skills.
Questo non significa che le competenze hard siano secondarie. Ma che senza una solida base di soft skills, difficilmente potranno esprimere il loro pieno potenziale in un contesto ad alta densità emotiva e simbolica come quello del passaggio generazionale.
Nel contesto di una successione, alcune soft skills diventano strategiche. Tra le più urgenti da coltivare:
per comprendere le dinamiche esistenti, leggere tra le righe, costruire relazioni di fiducia.
per affrontare zone grigie, ruoli non definiti, aspettative contrastanti.
non solo verso l’esterno, ma all’interno della famiglia e dell’organizzazione.
per riconoscere il valore della generazione uscente e motivare chi ha visto nascere l’azienda.
per proporre una traiettoria credibile, che tenga insieme passato e futuro.
Queste competenze non si apprendono solo in aula. Richiedono tempo, feedback, confronto e – spesso – un accompagnamento esterno.
Molti giovani entrano in azienda con un curriculum impeccabile: lauree internazionali, esperienze in multinazionali, competenze digitali e analitiche avanzate. Ma non sempre riescono a farsi ascoltare o seguire. Perché? Perché mancano di quella sensibilità necessaria a leggere il contesto umano in cui stanno entrando.
Il risultato è che le hard skills, per quanto preziose, si trasformano in strumenti spuntati. E la distanza con il resto dell’organizzazione aumenta, anziché diminuire.
In questo senso, non è la competenza tecnica a essere inutile, ma il modo in cui viene portata dentro l’organizzazione a determinarne l’efficacia.
Alla domanda iniziale – quali sono più urgenti nel passaggio generazionale? – la risposta più onesta è: dipende. Dipende da chi è la nuova generazione, da dove parte, da quale ruolo è chiamata a ricoprire. Ma in linea generale, possiamo affermare che le soft skills rappresentano oggi il fattore critico di successo.
Le hard skills possono essere apprese in tempi relativamente brevi, se c’è una buona base cognitiva e motivazionale. Le soft skills, invece, richiedono più tempo, più umiltà, più disponibilità al cambiamento.
Ed è per questo che devono essere coltivate per prime. Perché sono la base su cui costruire ogni forma di competenza credibile e duratura.
Nel passaggio generazionale, non si trasmette solo un’azienda. Si trasmette una cultura, una responsabilità, una visione. E per reggere questo passaggio serve più di un buon CV.
Servono persone in grado di guidare, di ispirare, di decidere con equilibrio. Persone che sappiano portare innovazione senza rompere l’identità, che sappiano ascoltare prima di cambiare, che sappiano tenere insieme passato e futuro.
E per costruire questo tipo di leadership, le soft skills non sono un complemento. Sono l’inizio di tutto.
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