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Nel dibattito pubblico sulla sicurezza informatica, l’attenzione è spesso rivolta alla tecnologia: firewall, antivirus, crittografia, aggiornamenti software, minacce APT, attacchi ransomware
Spesso mascherati da comunicazioni legittime, sfruttano l’elemento di urgenza o familiarità.
Tramite e-mail, chat o fogli condivisi, in modo non autorizzato o insicuro.
Comportamenti che vanificano anche i sistemi più avanzati di autenticazione.
Spesso senza misure minime di protezione fisica o logica.
Da parte degli utenti, con conseguente esposizione a vulnerabilità note.
Per comodità, si aggirano policy e si espongono dati aziendali a rischi esterni.
Ad esempio, non sapere a chi segnalare un sospetto, o ignorare una notifica di alert.
Queste azioni non dipendono da malafede, ma da disattenzione, pressione lavorativa, scarsa formazione o mancanza di consapevolezza del ruolo attivo di ogni dipendente nella protezione dell’organizzazione.
Gli impatti economici e reputazionali di un errore umano possono essere enormi, soprattutto se colpiscono asset critici come database clienti, infrastrutture di produzione, sistemi di pagamento o piattaforme di comunicazione.
Un singolo errore può causare:
Nel 2023, secondo l’IBM Cost of a Data Breach Report, il costo medio globale di una violazione dei dati ha raggiunto il massimo storico di 4,45 milioni di dollari, con un incremento del 15% negli ultimi tre anni. In Italia, il costo medio si attesta a 3,55 milioni di euro, in crescita costante. È quindi evidente che, seppur spesso invisibile, il fattore umano è uno dei costi occulti più pericolosi nella gestione del rischio aziendale.
Affrontare il problema non significa colpevolizzare il personale, ma comprendere i meccanismi che portano all’errore, per progettare ambienti di lavoro e protocolli che lo riducano sistematicamente. Tre modelli comportamentali spiegano in gran parte le dinamiche dell’errore:
Molte azioni digitali vengono eseguite automaticamente, senza attenzione consapevole. Il phishing, ad esempio, sfrutta proprio queste abitudini.
In contesti stressanti o ad alta intensità informativa, l’attenzione cala e aumenta il rischio di cliccare dove non si dovrebbe o ignorare segnali d’allarme.
Se non si comprende davvero cosa può succedere, è più facile trascurare regole e procedure.
La risposta efficace, quindi, non è solo tecnica (firewall, backup, autenticazione a due fattori), ma organizzativa: serve un ecosistema che prevenga, segnali e corregga l’errore umano.
Ridurre gli errori umani in azienda richiede un’azione su più livelli, tra cui:
Non bastano corsi annuali generici. Servono momenti brevi, frequenti, personalizzati per funzione e rischio.
Strumenti pratici che rafforzano la consapevolezza e misurano l’efficacia formativa.
Se le policy di sicurezza sono scritte in legalese e nascoste in una cartella, nessuno le seguirà. Serve chiarezza e immediatezza.
Per ridurre il tempo di reazione e incentivare la responsabilizzazione.
UX e design sono centrali. Una dashboard confusa può generare errori anche in personale competente.
Se il management tratta la sicurezza come un compito “IT”, il personale seguirà l’esempio. Serve un commitment visibile dall’alto.
Un advisor specializzato può essere utile non solo per impostare la sicurezza tecnologica, ma anche per analizzare il rischio umano in modo strutturato. In particolare:
Questo approccio è particolarmente efficace per PMI in crescita, aziende familiari in transizione generazionale o gruppi con una forza lavoro distribuita (es. retail, logistica, sanità, servizi).
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